mercoledì 22 febbraio 2012


  • Un articolo che mio padre Giuseppe Driussi (1904 - 2001) scrisse per il Messaggero Veneto di Udine nell'autunno del 1997.

    Quella polenta con lo zucchero durante la rotta di Caporetto





    Fra i miei ricordi incancellabili vi sono le dolenti vicissitudini condivise con i miei familiari in ordine alla tragica ritirata di Caporetto. Mio fratello Gino, militare al fronte sull’Isonzo, che col suo reparto ripiegò in quei giorni della seconda metà di ottobre del 1917, nell’imminenza del pericolo corse a Udine, scongiurandoci di fuggire, considerando soprattutto il rischio che potevano correre le due giovani sorelle."Gli austriaci e i tedeschi vengono avanti come belve!" furono le sue testuali parole.La sera del 27 ottobre, radunate poche cose raccolte in fagotti su un carrettino a mano, sotto una pioggia a dirotto ci incamminammo per viale Venezia, fra un caos indescrivibile di civili, militari italiani e alleati, carriaggi e cannoni.Giunti nei pressi del campo di aviazione di Campoformido, notai che nei prati laterali alla strada tutto era stato dato alle fiamme: ardevano hangar e magazzini che non si voleva lasciare cadere in mano nemica.Volgendomi verso Udine, vedevo i bagliori degli alti falò che si levavano dai depositi militari della città. La pioggia insistente ci accompagnò fino a Codroipo che raggiungemmo fra mille stenti. Mi ricordo che era buio e tremavo: l’acqua entrava dal colletto della camicia e scendeva per la schiena fino ai piedi. Eravamo fradici e mio fratello Leonardo che reggeva le stanghe del carretto non voleva più proseguire per la stanchezza e lo sgomento.A Codroipo trovammo alloggio per la notte in una stalla di contadini che erano indecisi se scappare o rimanere.Erano però impressionati, sapendo che noi eravamo di Udine e altra gente di Cividale e dintorni. Il giorno successivo decidemmo come altri profughi di proseguire il nostro cammino, non per la strada nazionale, ingombra in modo impressionante di caotico traffico, ma lungo la linea ferroviaria, a piedi naturalmente. Quindi, lasciato il carretto nella stalla, sempre sotto la pioggia, ci incamminammo con qualche fagotto per raggiungere i binari della ferrovia.Avevamo fatto poca strada quando improvvisamente un reggimento di cavalleria italiano lanciato al galoppo verso Udine tagliò la colonna di profughi ed io mi trovai con mia sorella Virginia diviso da altri familiari.Per un po’ sentii mia madre che mi chiamava ad alta voce, ma io e mia sorella, terrorizzati dalla carica della cavalleria, non potemmo ricongiungerci ai nostri cari e ci disperdemmo. Ci saremmo poi ritrovati a tarda notte al di là del ponte ferroviario sul Tagliamento.Arrivammo al ponte dopo il tramonto per la lentezza della marcia, essendo anche la linea ferroviaria superaffollata.  L’attraversamento del ponte avveniva lentissimamente a uno a uno con terrore, perché il fiume era in piena e l’acqua toccava quasi le arcate. Poiché si temevano bombardamenti aerei, al ponte stesso erano state tolte le lamiere del fondo da un lato, per cui il passaggio si svolgeva in una notte da tregenda su uno strettissimo corridoio e si vedeva l’acqua scura tumultuante che scorreva sotto i piedi a lato! Era tale la calca presso il ponte che veniva ripetuta a intervalli e passata l’un l’altro la voce: "Avanti! Avanti!". Incombeva il pericolo che sul ponte arrivassero da un momento all’altro i nemici. Il ponte qualche ora dopo il nostro passaggio fu fatto saltare con sopra civili, soldati italiani, austriaci e tedeschi. Ricongiunto ai miei, mia madre ci fece ricoverare tutti in un casello e con la farina portata con noi e salvata dalla pioggia, cucinò in un paiuolo una grande polenta che mangiammo intinta in un po’ di zucchero che un capitano aveva con sé. Parteciparono al pasto tutti i soldati che erano nel casello. Fuori bivaccavano qua e là attorno a fuochi improvvisati civili e militari. All’indomani ancora sotto una pioggia incessante, proseguimmo a piedi per la strada ferrata fino a Sacile, dove potemmo salire su una tradotta militare che ci portò a tappe fino a Firenze. Qui fummo alloggiati in brande nella chiesa di Santa Maria Novella. Dopo due giorni ci avviarono a Pallerone, località della Toscana in provincia di Massa Carrara, dove arrivammo di notte e trovammo ospitalità in una chiesa con poca paglia sul pavimento raggruppati per famiglie.Dopo qualche tempo ci sistemammo alla Spezia fino al ritorno, ai primi del 1919, a Udine alle nostre case che trovammo spoglie di tutto. Alla Spezia le mie sorelle trovarono lavoro come sarte presso l’Unione Militare e mio fratello Leonardo presso una fonderia di cannoni. Io vi frequentai la seconda media. La mia professoressa di lettere ripeteva: "Mio marito è morto nella battaglia di Pozzuolo del Frìuli".Mi ritornava alla mente il ricordo di quel reggimento di cavalleria italiana lanciato al galoppo verso Udine che aveva tagliato in due la colonna dei profughi. Mi permettevo di correggerla: "Signora professoressa, si dice Friùli, non Frìuli". Un giorno fui accompagnato a scuola da mio fratello Gino che, ritrovatici tramite la Croce Rossa Italiana, ottenne un breve permesso dal fronte del Piave ove si trovava. Il mio preside ebbe alte parole d’elogio per lui e lo additò ad esempio per il suo valore agli studenti. I miei compagni di classe organizzarono una colletta per farmi dono di una cartella di cento lire del prestito consolidato al 5 per cento del Regno d’Italia. Nella tragica ritirata di Caporetto ci furono molti componenti di una stessa famiglia dispersi. In seguito alcuni si ritrovarono attraverso annunci sui giornali o, com’era stato per noi, per il tramite della Croce Rossa Italiana, altri poterono ricongiungersi solo a guerra finita. Durante il periodo di profuganza infierì la febbre spagnola che ebbe a mietere più vittime della guerra mondiale.


    • Giuseppe Driussi