Nell’occasione dell’odierna riapertura e visita guidata
al rifugio antiaereo del Giardino del Torso, ripropongo un articolo
di mio padre Giuseppe, già apparso nelle rubrica “Lettere al
Direttore” – Messaggero Veneto di martedì 29 dicembre 1998).
Le bombe
sulla città in quel pomeriggio invernale.
Apprendo dal Messaggero, che gran parte degli udinese
fatti allontanare nella mattinata di domenica 6 dicembre 1998 per il brillamento
di una bomba di probabile fabbricazione americana riaffiorata il mese precedente
in un cantiere di viale XXIII marzo, ha vissuto l’evento come un’occasione per
fare shopping in città, per dirigersi verso centri turistici invernali o andare
a pranzo negli eleganti ristoranti dei dintorni. Pochi gli anziani confluiti
all'Istituto Tecnico Malignani, dove avevano predisposto le cose in grande per
accogliere almeno quattrocento ospiti. Quasi nessuno ha ricordato le tragiche
giornate vissute dalla popolazione alle fine del 1944, quando Udine fu oggetto
di pesanti bombardamenti da parte degli Alleati. Mi permetto di farlo io
attraverso la cronaca delle mie vicende
e quelle dei mie familiari.
La sirena dell’allarme mi aveva indotto a chiudere la
drogheria anzitempo in quel primo pomeriggio di venerdì 29 dicembre. Ad aiutarmi
nel negozio di via Gemona appena avviato non era rimasta che mia figlia Nives
allora non ancora quindicenne. Inforcate le nostre malandate biciclette, una
dietro all'altro, io e mia figlia avevamo attraversato la città, da via Gemona a
viale Palmanova mentre le case si
svuotavano e la gente correva verso i rifugi. Mia moglie Sara e Milvia, la
figlia minore allora decenne, ci attendevano ansiosamente. Il tempo di mettere
al riparo le biciclette e di andare a nasconderci tutti quanti nel canaletto del
fossato coperto da pietre. Uno accanto all’altro, accovacciati, quasi seduti in
fila assieme ad altra gente. Le bombe cominciarono a piovere giù. Sentimmo quasi all’istante la deflagrazione
violentissima e vicinissima, come se ci fosse stato un sommovimento tellurico. Sembrava che una
quantità colossale di sassi fosse stata divelta dal terriccio. In realtà, come
mi accorsi dopo, si trattava di schegge di ferro appuntite e arcuate che penetrarono pure nel canaletto ove eravamo
rifugiati e che se fossero passate cinque centimetri più in basso ci avrebbero
uccisi tutti. Obiettivo era la linea ferroviaria. Volevano colpire i locomotori,
privando i tedeschi della possibilità di muovere i loro convogli. Gli Alleati
arrivarono ma non come se lo aspettava la popolazione. Le bombe cadevano fitte,
una dopo l’altra, dentro la città sulla quale le nuvole bianche delle esplosioni
si moltiplicavano. Il rumore della distruzione intorno si ampliava fino a
diventare un suono terribile. Quando ritenemmo che i bombardamenti fossato
cessati uscimmo. Il viale aveva un aspetto spettrale. C’erano morti ovunque. Una
quantità enorme di rami divelti dagli alberi giaceva sul piano stradale. “La mia
casa, la mia casa! I me gà butà zo la casa!” Tra un vortice di schegge e crolli
di muri maestri, anche una parte della nostra modesta abitazione era stata
lesionata. Un silenzio artefatto pesava nei campi soffocati di polvere e
calcinacci. Una donna che era con noi nel rifugio si torceva le mani. Dal
cappotto le sfuggivano i lembi del grembiule. Aveva capelli scomposti. Si appoggiò al tronco di
un albero, come per sostenersi da un improvviso capogiro, Cercava il figlio e ne
chiamava il nome con voce accorata. Lo ripeteva con forza, perché il figlio
tardava a rispondere. Mia moglie la consolava. “Signora, la vederà che lo trova.
El sarà andà a rifugiarse da un’altra parte”. Lo trovammo noi. Morto in un
fosso. Ai Molini sul Ledra una scuderia era stata colpita in pieno, quella dove
stallavano i cavalli adibiti ai trasporti. Finiti i bombardamenti, dai Molini i
titolari Muzzati e Magistris si affrettavano a piedi diretti in città per vedere
che fosse successo delle loro case. Per lo più si erano salvate.
C’era di nuovo il silenzio con appena un’eco metallica
in lontananza dalla parte dov’era scomparsa la squadriglia e non si udivano che
i pianti e le invocazioni della gente. Su un carro trainato da buoi giunse mio
suocero. Dal Cormor avevano visto le bombe che cadevano sulla città. “Cemut
faseiso a stà sot chestis bombis?! Vie, vie! Cjariin la robe che us meni sul
Cormor a cjase mè”. Assieme a lui, mia moglie e le mie due figlie, caricai il
mobilio, i letti, i materassi, le nostre masserizie. Era venuta ad accertarsi
sulle nostre condizioni anche mia sorella Emilia. Dalla casa di riposo di via
Pracchiuso, dove da poco si era ritirata, aveva percorso viale Trieste. Ce la
descriveva con crateri enormi della profondità di venti, trenta metri.
S’intrattenne con noi fino a quando tutte le nostre cose furono caricate sul
carro. Nella casa di viale Palmanova rimase solo il pianoforte a noleggio su cui
studiava Milvia, la mia figlia minore, e che, recuperato in un secondo tempo, fu
riportato al proprietario. Calava la
sera di quella giornata d’inverno, mentre sul carro trainato dai buoi compivamo
il tragitto da viale Palmanova al Cormor, frastornati, prostrati, incapaci di
pensare a niente. Quella sera non fu possibile ascoltare quanto diceva il
colonnello Stevens da Radio Londra nel suo perfetto italiano. Girata la manopola
più volte e inutilmente, prima di spengere la radio, disturbatissima, ascoltai
una voce cantare: “A Capo Cabana ti rubano il cuor, a Capo Cabana si vive
l’amor!”. Ci eravamo caricati stanchissimi, la mente carica di considerazioni
gravi che oscuravano il nostro futuro, lo rendevano preoccupante e problematico.
Io avevo atteso il sonno pazientemente, parlando a bassa voce con Sara, mia
moglie, alla ricerca a delle sue parole buone, ispirate dal suo carattere calmo
e riflessivo, le parole che avrebbero potuto aiutarmi a cancellare i miri tristi
pensieri. E il giorno seguente dimenticavo, riprendendo a lavorare con
accanimento.
Giuseppe Driussi
(da Lettere al Direttore – Messaggero Veneto di martedì
29 dicembre 1998).