sabato 13 dicembre 2014

Quei due soldatini di piombo che arrivavano per Santa Lucia



 
 
In fretta recitavo mentalmente la preghiera che la mamma mi aveva insegnato come accettabile da Gesù quando, per un qualunque buon motivo, non si aveva tempo per pregare di più. Sotto le coperte, tenendo gli occhi chiusi, mi sforzavo di rendermi conto di quello che stata accadendo, di che ore magiche e sante fossero quelle, di come fosse in arrivo una notte speciale. Sembrava esserci una strana atmosfera, come avviene sempre in momenti molto speciali e mai in occasioni qualsiasi. Era un po’ come la consapevolezza d’un nuovo compleanno o del Natale. Ma in realtà non si trattava di niente di tutto questo. Si trattava della notte di Santa Lucia. Ne avevo sentito parlare da giorni.  A scuola dai compagni di classe, a casa dagli amici con cui mi ritrovavo in cortile a giocare. La mamma mi aveva detto che avrei dovuto posare gli zoccoletti sul davanzale della cucina insieme col fieno per rifocillare l'asinello che accompagnava Santa Lucia e lei avrebbe lasciato dei doni. Furtivamente nel pomeriggio ero andato a prelevare un po’ di fieno nelle stalle dei contadini che avevano i loro appezzamenti di terreno dove attualmente c’è via Sabbadini.
Una volta ritornato a casa, avevo fatto brillare a nuovo i miei zoccoletti con spazzola, panno e il lucido Ecla, sul cui coperchio era disegnata la sagoma di un uomo con un piede levato e una mano destra ad indicare la lucentezza del suo stivaletto. Osservato dalla mamma, li avevo depositati sul davanzale interno della finestra che dava sul poggiolo. Non sapevo come, ma Santa Lucia avrebbe trovato il modo di entrare. Avrebbe lasciato l’asinello sotto il portico e sarebbe salita per la scaletta di legno. O forse l’asinello poteva volare e passare con Santa Lucia attraverso i vetri della finestra della cucina? La mamma mi aveva raccomandato di andare a dormire presto quella sera, perché se Santa Lucia, passando, avesse trovato i bambini alzati, non si sarebbe fermata ed avrebbe proseguito oltre.
A letto faticavo a dominare la trepidazione e e la sensazione  d’ansia. “Oddio, cui sa se si visarà di me! Bisugne sta quies, se no no ven”. Sapevo che non potevo attendermi grandi cose, perché la mamma mi aveva ripetuto : “Sante Lussie e sa jè chel che à di partà. E lasse chel che sa jè”. Mi addormentavo del sonno profondo in cui cadono i bambini. Quando all’alba mi svegliavo, nel buio della camera sussurravo nel mio intimo un Padre Nostro molto lentamente, attento al pieno valore d’ogni parola, una frettolosa Ave Maria e un ancor più rapido Gloria. Era più forte l’impazienza di saltare fuori dal letto , a piedi nudi scendere in cucina e accorrere alla finestra per vedere quanto Santa Lucia aveva lasciato. Trovavo piccole cose: una palanca da dieci centesimi, alcune caramelle, due o tre cioccolatini, due soldatini di piombo.
Generalmente in quei mesi di dicembre nevicava.
Una volta sbadatamente avevo fatto precipitare quei regalucci fuori dalla finestra. Erano caduti nella neve e la mamma aveva dovuto andare a raccoglierli, avvolta nel fazzolettone, una coperta leggera che teneva sulle spalle. Andavo a scuola in via Ginnasio Vecchio. Con dispiacere vedevo quanto Santa Lucia aveva portato ai bambini delle famiglie benestanti. Eccitati, esibivano in classe la sciabola, il cappello da ufficiale e raccontavano d’aver ricevuto anche un cavallo a dondolo, che a malincuore avevano lasciato a casa. Ma la mamma era stata chiara: “Sante Lussie e sa jè chel che à di partà. Ai puars e lasse robis di puars e ai siors e lasse robis di siors”.
Il mio maestro era Enrico Fruch. Ogni mattina la donna di servizio gli portava a scuola la sporta con il pranzo che a mezzogiorno consumava seduto sulla cattedra. Noi mangiavamo le cose che ci eravamo portati da casa nella cartella, per lo più una fetta di pane con l’uva. Al termine delle lezioni, io che abitavo in via San Rocco, la stessa via del maestro, ero incaricato, con mio sommo orgoglio, di riportare a casa sua la sporta con i piatti da lavare.
Nel pomeriggio del giorni di Santa Lucia la mamma mi accompagnava alla funzione che si teneva nella chiesa del Redentore in via Mantica, ove c’è tuttora la statua che raffigura la santa che tiene gli occhi sul piattello. Si ergeva là in fondo a destra della navata in penombra. Ai suoi piedi tremolavano le fiammelle delle candele e dei lumini accesi. La chiesa era affollatissima  e il parroco predicava dal pulpito. All’uscita per tradizione si entrava in una trattoria di via Mantica, ove servivano la “soppe”,  brodo di carne con pane raffermo inzuppato. Noi compravano una bottiglietta d’acquavite per mio padre. Sulla via del ritorno passavamo per via Zanon. “Sante Lussie el fret al scussie”. Dalla roggia era fuoriuscito un ricolo d’acqua che si era ghiacciata. La mamma lo evitava, io mi divertivo a “sglissià”, a pattinarvi con i miei zoccoletti.  Arrivati in fondo alla via, udivo lo sferragliare del tram che passava per piazza Garibaldi. Era un tram scartato da Milano, perché composto da piccole vetture che procedevano molto adagio, tanto che la gente faceva prima ad andare a piedi. Partiva dalla stazione, risaliva per via Aquileia fino a piazza Vittorio e da qui proseguiva per via Cavour e Piazza XX settembre. Attraversata piazza Garibaldi, ritornava alla stazione  per via Cussignacco. Per mano a mia madre guardavo le prime stelle accendersi nella sera gelida. La giornata era quasi finita. A casa mi attendevano i due soldatini di piombo che mi aveva portato Santa Lucia.
 
Giuseppe Driussi
 
Sabato 12 dicembre 1998

giovedì 28 agosto 2014

Mina - Questa donna insopportabile (di Federico Spagnoli) - da "Selfie"

Il tragico scoppio di Sant’Osvaldo nel ricordo di un ragazzo (di allora)



La mattina del 27 agosto 1917, mentre con altri ragazzi giocavo vicino ad un accampamento di soldati in via San Rocco, udii un tremendo boato in direzione di Sant’Osvaldo (distanza in linea d’aria seicento metri circa) e contemporaneamente vidi levarsi altissima una fiammata in una colonna di fumo nero, scorgendo nello stesso istante, quasi verticalmente a essa, un aereo che sorvolava la zona. Non ho  mai saputo di quale nazionalità fosse quel velivolo. Lasciai i compagni e mi precipitai subito a casa, che si trovava nella stessa via San Rocco, e assieme a mia madre e a mia sorella Emilia, profuga dalla Romania invasa dai tedeschi, ci portammo, seguiti da altre persone, verso il centro della città. Durante la nostra corsa si susseguirono altre tremende esplosioni e a ognuna di esse, per lo spostamento d’aria, venivamo scaraventati a terra.
Arrivati in viale Venezia, dove c’era un fuggifuggi generale, autorità militari ci fecero scendere nelle cantine della fabbrica Birra Moretti, perché sulle prime tutti credevano che si trattasse di un bombardamento aereo. Quando si seppe che le esplosioni, che continuavano, erano dovute allo scoppio della polveriera e del deposito di munizioni di Sant’Osvaldo, i militari ci fecero uscire dalle cantine e salire su autocarri dell’esercito assieme a tutti i civili che erano nelle adiacenze e portarono noi a Colugna, altri a Feletto, Tricesimo e località vicine. Anche mio fratello Leonardo e mia sorella Virginia, che si trovavano a lavorare in città, ripararono fuori Udine. Per effetto delle esplosioni gran parte della città ebbe i vetri infranti con infissi e tegole per le vie; fotografie apparse su “L’Illustrazione italiana” mostravano l’allora Piazza Vittorio Emanuele II con la Torre dell’Orologio con i vetri rotti e frammenti sparsi sul terrapieno della stessa piazza. Il rumore delle esplosioni si udiva alla distanza di oltre venticinque chilometri da Udine. Verso sera ci riportarono alle nostre case che trovammo scoperchiate, senza vetri e con pareti crollate.
A pericolo cessato, un mio coetaneo ed io, vinti dalla curiosità, temerariamente eludemmo il cordone di truppe postate intorno a Sant’Osvaldo e ci inoltrammo nella zona del disastro. Lo spettacolo era terrificante. Sembrava un vero e proprio campo di battaglia sconvolto: enormi crateri, case crollate, scoperchiate, incendiate e tutto intorno proiettili esplosi e da esplodere. I militari, appena notata la nostra presenza, ci allontanarono subito. A mio fratello Gino, che si trovava al fronte, fu dato un permesso per recarsi a visitare i familiari, essendo la nostra casa a non molta distanza dallo scoppio. Vedendo il disastro prodotto dall’esplosione, mio fratello lo paragonò al Carso, stravolto dai bombardamenti.
Giuseppe Driussi – Udine.


27 Agosto 1997

Mina - La sola ballerina che tu avrai (da "Selfie")

Mina - Io non sono lei (da "Selfie")