Quei due soldatini di piombo che arrivavano per Santa Lucia
In fretta recitavo mentalmente la preghiera che la mamma mi aveva insegnato
come accettabile da Gesù quando, per un qualunque buon motivo, non si aveva
tempo per pregare di più. Sotto le coperte, tenendo gli occhi chiusi, mi
sforzavo di rendermi conto di quello che stata accadendo, di che ore magiche e
sante fossero quelle, di come fosse in arrivo una notte speciale. Sembrava
esserci una strana atmosfera, come avviene sempre in momenti molto speciali e
mai in occasioni qualsiasi. Era un po’ come la consapevolezza d’un nuovo
compleanno o del Natale. Ma in realtà non si trattava di niente di tutto questo.
Si trattava della notte di Santa Lucia. Ne avevo sentito parlare da giorni. A
scuola dai compagni di classe, a casa dagli amici con cui mi ritrovavo in
cortile a giocare. La mamma mi aveva detto che avrei dovuto posare gli
zoccoletti sul davanzale della cucina insieme col fieno per rifocillare
l'asinello che accompagnava Santa Lucia e lei avrebbe lasciato dei doni.
Furtivamente nel pomeriggio ero andato a prelevare un po’ di fieno nelle stalle
dei contadini che avevano i loro appezzamenti di terreno dove attualmente c’è
via Sabbadini.
Una volta ritornato a casa, avevo fatto brillare a nuovo i miei zoccoletti
con spazzola, panno e il lucido Ecla, sul cui coperchio era disegnata la sagoma
di un uomo con un piede levato e una mano destra ad indicare la lucentezza del
suo stivaletto. Osservato dalla mamma, li avevo depositati sul davanzale interno
della finestra che dava sul poggiolo. Non sapevo come, ma Santa Lucia avrebbe
trovato il modo di entrare. Avrebbe lasciato l’asinello sotto il portico e
sarebbe salita per la scaletta di legno. O forse l’asinello poteva volare e
passare con Santa Lucia attraverso i vetri della finestra della cucina? La mamma
mi aveva raccomandato di andare a dormire presto quella sera, perché se Santa
Lucia, passando, avesse trovato i bambini alzati, non si sarebbe fermata ed
avrebbe proseguito oltre.
A letto faticavo a dominare la trepidazione e e la sensazione d’ansia.
“Oddio, cui sa se si visarà di me! Bisugne sta quies, se no no ven”. Sapevo che
non potevo attendermi grandi cose, perché la mamma mi aveva ripetuto : “Sante
Lussie e sa jè chel che à di partà. E lasse chel che sa jè”. Mi addormentavo del
sonno profondo in cui cadono i bambini. Quando all’alba mi svegliavo, nel buio
della camera sussurravo nel mio intimo un Padre Nostro molto lentamente, attento
al pieno valore d’ogni parola, una frettolosa Ave Maria e un ancor più rapido
Gloria. Era più forte l’impazienza di saltare fuori dal letto , a piedi nudi
scendere in cucina e accorrere alla finestra per vedere quanto Santa Lucia aveva
lasciato. Trovavo piccole cose: una palanca da dieci centesimi, alcune
caramelle, due o tre cioccolatini, due soldatini di piombo.
Generalmente in quei mesi di dicembre nevicava.
Una volta sbadatamente avevo fatto precipitare quei regalucci fuori dalla
finestra. Erano caduti nella neve e la mamma aveva dovuto andare a raccoglierli,
avvolta nel fazzolettone, una coperta leggera che teneva sulle spalle. Andavo a
scuola in via Ginnasio Vecchio. Con dispiacere vedevo quanto Santa Lucia aveva
portato ai bambini delle famiglie benestanti. Eccitati, esibivano in classe la
sciabola, il cappello da ufficiale e raccontavano d’aver ricevuto anche un
cavallo a dondolo, che a malincuore avevano lasciato a casa. Ma la mamma era
stata chiara: “Sante Lussie e sa jè chel che à di partà. Ai puars e lasse robis
di puars e ai siors e lasse robis di siors”.
Il mio maestro era Enrico Fruch. Ogni mattina la donna di servizio gli
portava a scuola la sporta con il pranzo che a mezzogiorno consumava seduto
sulla cattedra. Noi mangiavamo le cose che ci eravamo portati da casa nella
cartella, per lo più una fetta di pane con l’uva. Al termine delle lezioni, io
che abitavo in via San Rocco, la stessa via del maestro, ero incaricato, con mio
sommo orgoglio, di riportare a casa sua la sporta con i piatti da lavare.
Nel pomeriggio del giorni di Santa Lucia la mamma mi accompagnava alla
funzione che si teneva nella chiesa del Redentore in via Mantica, ove c’è
tuttora la statua che raffigura la santa che tiene gli occhi sul piattello. Si
ergeva là in fondo a destra della navata in penombra. Ai suoi piedi tremolavano
le fiammelle delle candele e dei lumini accesi. La chiesa era affollatissima e
il parroco predicava dal pulpito. All’uscita per tradizione si entrava in una
trattoria di via Mantica, ove servivano la “soppe”, brodo di carne con pane
raffermo inzuppato. Noi compravano una bottiglietta d’acquavite per mio padre.
Sulla via del ritorno passavamo per via Zanon. “Sante Lussie el fret al
scussie”. Dalla roggia era fuoriuscito un ricolo d’acqua che si era ghiacciata.
La mamma lo evitava, io mi divertivo a “sglissià”, a pattinarvi con i miei
zoccoletti. Arrivati in fondo alla via, udivo lo sferragliare del tram che
passava per piazza Garibaldi. Era un tram scartato da Milano, perché composto da
piccole vetture che procedevano molto adagio, tanto che la gente faceva prima ad
andare a piedi. Partiva dalla stazione, risaliva per via Aquileia fino a piazza
Vittorio e da qui proseguiva per via Cavour e Piazza XX settembre. Attraversata
piazza Garibaldi, ritornava alla stazione per via Cussignacco. Per mano a mia
madre guardavo le prime stelle accendersi nella sera gelida. La giornata era
quasi finita. A casa mi attendevano i due soldatini di piombo che mi aveva
portato Santa Lucia.
Giuseppe Driussi
Sabato 12 dicembre 1998