martedì 23 agosto 2016

September days are here





It hurts. 
Many emotions, yet one… 
I loved.
Be happy in the sunshine while you may 
For with the dawn, there comes another day 
And dawn by dawn, the lovely Summer flees! 
 walk on ginger leaves, 
Frosty mists of September burn my skin with nostalgia. 
Lifeless playground swings carry no murmurs 
Of small voices carefully choosing words 
For intimate promises made on long ago days. 
“Will you have lunch with me tomorrow?”


Paolo Driussi.

domenica 7 agosto 2016

MINA Everythings happens to me HD HQ


 Mina - Everything happens to me.

Mina - La barca (1964)

MINA (1964)


di Paolo Driussi
      L’elettricità nella spazzola, nelle mani, in un pacchetto di sigarette
fumato in poche ore, nelle pagine spiegazzate di un quotidiano. I capelli.
Non riuscivo a dargli un verso.
L’elettricità di un incontro. L’e-mail se ne stava lì, muta, nel rifugio
del mio computer.
Gli occhi fermi su quelle parole. Mi usciva tra le labbra uno smozzicato
“Possibile?”.
Volevi incontrarmi. Farmi i complimenti, leggere altre cose.
      Decisi che ti avrei incontrata. Prima l’emozione di una breve telefonata.
Così ti avrei trovata e infine ti avrei parlato. Ma non parlato e basta.
Parlato…parlato….parlato….
Ci incontrammo. Vent’anni. Avevi barato sull’età. In chat mi avevi detto
d’averne trentacinque. Io e te. Trentasette anni di differenza.
Sempre meno di quaranta.
Avevi portato con te cinque cartelle dattiloscritte tra le mani, cinque
giorni di attesa, cinque le dita bianche senza anelli, cinque le fermate
del vaporetto.
Tu, vent’anni, gli uomini li conoscevi poco.
Gli uomini, quelli che popolano i racconti, sono un’altra storia.
Parlammo di Rimbaud e di Apollinaire. Ti dissi brava. Tu arrossisti. Poi
partì un bacio. Un bacio di quelli che non ti aspetti. Nel mio studio a
San Polo. Con la foto di mio figlio. Vent’anni.
Che non sa di suo padre. Sa soltanto che scrive e ogni tanto lo vede su
Televenezia.
Io ti chiesi scusa. Tu arrossisti. Ti diedi un altro bacio. Ci vedemmo
altre volte. Nel mio studio. Parole e baci.
Mercoledì mattina sei uscita dalla doccia vestita soltanto di un
asciugamano arrotolato in testa sparando decisa un: ”Ho deciso di non
dormirci più da te!”
      Io tiravo freccette ad un bersaglio a forma di cuore, il mio, ti vedevo
riflessa sulla porta a vetri mentre sgocciolavi in verticale acqua dai
capelli sul parquet, ai piedi le mie pantofole, sulla tua pelle l’odore
penetrante del mio bagnoschiuma al sandalo.
Istantanee di te.
Tu continuavi a fissare un qualunque punto del pavimento.
Ho unito con una linea immaginaria quel punto ai tuoi occhi, alla distanza
tra noi, a casa tua alla Giudecca. Poligoni di memoria, periferiche mal
collegate.
      Hai sciolto l’asciugamano mentre mi dicevi: “Il rumore, possibile che non
te ne accorgi? I vaporetti, l’ascensore, quelli che escono presto la
mattina, le molle del materasso…”
Elenco così preciso e dettagliato da far sembrare la mia dimora
un’acciaieria. Guardavo i miei CD in bellavista sul muro.
      Mina. Del 1964. “Lo sai che Mina nel 1964 quando aveva poco più della
tua età, ha inciso un album intero di classici standard americani.
Guarda. Ci sono brani come Stella By Starlight e Everything Happens To Me.
In particolare quest’ultimo è estremamente suggestivo e non sfigura
affatto accanto a versioni più note come quella famosa di Chet Baker”.
Hai indossato un paio di collant neri di quelli con i ghirigori e hai
detto un no convinto allo Scottex per asciugare l’acqua sul parquet.
“Personalmente ho dei dubbi, non perché Mina non abbia talento come
cantante jazz, ma perché quando interpreta gli standard americani si sente
che manca una componente essenziale delle sue interpretazioni: l’abbandono
espressivo dettato dalla consapevolezza dei testi che invece possiede sul
repertorio italiano, dove a mio avviso dà il meglio”.
      Le note di “The Nearness Of You”. L’ha rifatta recentemente anche in “Mina
in Studio 2001”, ma già quarant’anni fa era sublime. Che ne sa questa
cretinetta?
      Io abile giocatore di poker con i miei silenzi in dotazione, tu con una
voglia femmina di vedermi le carte, magari è solo un bluff, aspettando che
qualcuno di noi due passi la mano o veda o si produca in un eloquente cip.
      Hai preso le tue cose dal mucchio e le hai stipate in una busta di
plastica, lasciando impronte di borotalco sul parquet.
Poi hai sbattuto la porta e te ne sei andata. La musica, quella, non si
ferma. Mina canta “Angel Eyes”. Socchiudo gli occhi, mi allungo sul divano
e accendo un’altra sigaretta.
      Fra due giorni proverò a chiamarti o a mandarti un fax con un cuore
disegnato.
Fra due giorni non troverò la carta e rinuncerò all’idea.
Schiaccio naso e labbra contro la vetrina della pasticceria sotto casa
sbavando per quel vasto assortimento di pasticcini così sboccati e
irriverenti che sembrano volermi dire “ Vieni, vieni…”.
      Ho sottobraccio quel che resta di una baguette e nell’altro un poster
arrotolato di Ursula Andress nel film “Agente 007 – Licenza di uccidere”.
E’ rimasto appeso in camera mia per non so quanti anni e così, mi sono
detto, prima di tinteggiare la mia stanza, lo porto un po’ in giro (il
poster) a fargli vedere come nel frattempo il mondo è cambiato, che ora
vai per girarti e sbatti il muso contro una multisala o un Internet Point.
Per non parlare poi della gente che si scambia baci e vestiti e amorosi
sensi lungo calli deserte. Quindi non sorprenderti, mia cara Ursula, se
dovessi vedere un uomo in gonnella.
E’ una cosa normale di questi tempi.
Certe volte ci rifletto. Mi vedrei bene in kilt, ci ho pensato più di una
volta, che se fossi nato in Scozia avrei finito per mangiare quantità
considerevoli di salmone affumicato e bevuto della buona birra. Poi avrei
partecipato a numerose parate di uomini in kilt con sottofondo di
cornamuse e mi sarei fatto finanche fotografare al bordo della strada
mentre piscio insieme ai miei amici scozzesi sollevando il gonnellino quel
tanto che basta.
Io era da un po’ di tempo che volevo dirtelo ma non trovavo le giuste
parole e la giusta occasione.
Poi dici che uno si butta nella scrittura o a sinistra che poi è la stessa
cosa!
Che certe cose le devi per forza scrivere, non puoi rinchiuderle nel
recinto dei tuoi pensieri e sperare, col tempo, di addomesticarle come
faceva Robert Redford ne “L’uomo che sussurrava ai cavalli”.
Dunque stavo dicendo…”Ninguen me ama”, ma no il fatto è che spesso mi
perdo nei miei ragionamenti. Ursula Andress, mi dispiace dirlo, è
invecchiata pure lei. Ha perso quel fascino androgino che tanto le donava.
Credo sia arrivato il suo tempo.
In un cassonetto differenziato, tra batterie scariche e medicinali
scaduti, mi fermo dubbioso a riflettere mentre la vita mi passa davanti
incurante della fila e delle buone maniere. Saluto con tanto di
lacrimuccia la Ursula adagiandola dolcemente al lato del cassonetto.
Chi mi ha visto baciare un poster vicino all’immondizia non si sarà fatto
una buona opinione di me.
Le voci che allegramente bivaccano sulla mia testa mi consigliano di
fottermene.
E io, che non me lo lascio ripetere due volte, prendo atto e me ne fotto!
      Leggo luci al neon, con sguardo sfuggente, da un vaporetto che ruba
intimità alle case che si affacciano sul canale, rese vive da stanze
accese, madri di vite che non mi appartengono.
Rubo attimi da mollette colorate e panni stesi ad asciugare che disegnano
fantasie di arcobaleno dipinte, dentro me.
      Nascono realtà non tangibili che mi attaccherò sulla pelle, tremando di
emozione, cosciente del mio invadere spazi che non mi riguardano, ma che
sento, io, che non appartengo a nulla, io, che faccio parte di tutto, oggi
come ieri. Non sarò qui a bussare. “Dicen que la distancia es el olvido,
pero yo no concibo esta razon”. Adesso ho appena copiato il Cd per Marino,
che si è quasi messo a piangere di gioia quando ha saputo che questo Mina
del 1964 ce l’avevo in casa.
      Beh, bello, ben fatto e molto ben confezionato.
Del resto… Mina è Mina, ed a chi non piace Mina? Non piace alla
ragazzina. Ma di certo non sarò qui a chiedere il permesso a lei di
continuare ad ascoltare ciò che mi piace. Mi troverete lì a masticare
patatine fritte e bere succhi vitaminici, a guardare la tv sdraiato sul
divano, annoiato e indifferente, perso in pensieri che vi ruberò per
alleggerire un po’ il cuore, a spiarvi mentre fate l’amore padri e madri e
amanti e giovani alla ricerca di un paradiso, in cui non svendersi e
piegarsi mai, a leggere un libro per non sentire la solitudine che
opprime, a piangere sul letto, mordendomi le mani, per non urlare,
togliendovi il dolore che soffoca e non importa da dove arriva, è pur
sempre dolore.
“Stella by starlight”: la consapevolezza di non essere un gabbiano mi fa
sentire inutile.
Non sarò io ad aspettare che mi si conceda un momento libero e giusto per
immaginare.
Il vaporetto è arrivato alla stazione di Santa Lucia.
Quando sembra che io non abbia nulla da dire.
Quando sembra che io stia volando via lontano, su tappeti fiabeschi che
non portano in cieli sereni.
Quando sembra che io sia sempre sul punto di raccogliere pensieri tristi
dal cuore.
Quando non si sa mai cosa c’è dietro uno sguardo che smette di parlare.
Non le piaceva nemmeno questa. “Non sono d’accordo. Mina a mio parere
manca completamente di senso di dramma, di blues feeling. E d’altra parte
la scelta del suo repertorio, da “Ma che bontà, ma che bontà, ma che cos’è
questa robina qua” a “Quando la banda passò”, credo non lasci dubbi”.
      Ritorno verso casa con forse troppe luci al neon lette e troppi panni
stesi ad asciugare e troppe mollette colorate e troppe fantasie per poter
raccontare senza rischiare che tutto sfumi, perdendosi tra smog e stelle
di cartone.
      Ah, Insensatez que voce fez, curacao mais sem cuidado…
      La ragazzina sparava le sue cazzate: “Voglio dire che le sue canzoni le
trovo, in sostanza tutte eguali, pochissimi guizzi creativi, buttati a
bella posta qua e la per cercare di accontentare anche gli ascoltatori
dotati di un minimo di senso critico. Tutta la produzione di Mina che ho
sentito, l’ho trovata niente altro che un prodotto commerciale con target
“alto”. Lo stesso vuoto spinto dei Take That, Giorgia, Samuele Bersani.
Solo confezionato per un target diverso”
      Quello che sembra non è, quello che è non ci appartiene, qualcosa ci
manca.
E quel qualcosa ci stanca. Continuo ad esprimermi attraverso le parole
delle canzoni perché tutto è stato già detto.
      “E se domani, io non potessi rivedere te. Mettiamo il caso che ti sentissi
stanco di me…” I miei diciassette anni…
      “Io ti dico che non puoi esprimere questi giudizi su Mina se la conosci
poco. Ma alcune sue cose che hai sentito dovrebbero bastarti per aver
voglia di ascoltarla o provare a conoscerla di più. Hai sentito la
versione della Canzone di Marinella nell’ultimo album di De André? Credo
sia un vertice assoluto!
Un disco ha tanti livelli di ascolto ed uno di questi può essere la
“confezione”, cioè l’arrangiamento. Inoltre questi personaggi sanno
circondarsi di musicisti di livello altissimo e scoprirli tra le righe è
una mia passione. Non a caso nella canzone di De Andrè, suona il piano
Danilo Rea, che è uno dei migliori jazzisti italiani! Inoltre spero che tu
non creda che per me Mina è un dogma, però se canta una canzone che a me
piace, perché non dovrei ascoltarla?
      Tu hai ripreso a disegnare alberi. Ti ho sognata mentre con un dito
tracciavi il vetro appannato di una Stilo bianca e scrivevi un nome e poi
lo cancellavi.
Questo hai fatto nel chiaroscuro di una notte stelle basse e cielo
capovolto.
Ritorno ai profumi di quella che è la mia vita, quando non c’è più nessuna
voce e nessuna luce e nessun rumore da cogliere, solo stracci di sonno a
riscaldarsi al calore del radiatore e il mio raccolto, da tenere stretto,
prima che si trasformi e inondi il barile dei pensieri tristi, da tenere
stretto, perché resti puro, a colmare la mente, a partorire sogni. Ogni
notte.
La mia buonanotte. “Non illuderti, non devi illuderti…”
      Ho messo quel che resta della mia anima in frigo accanto a una bottiglia
di Moet & Chandon che non berrò mai. Ma mi piace pensare che stia lì. La
bottiglia.
A chiacchierare con l’anima ed i limoni. Qualche volta li compro e
fottendomene della scadenza li vedo che lasciano questa vita terrena
avvolti in un mantello verde muffa che tanto va di moda tra le persone
comuni.
Questa notte.
Vestita di reggae e di altre sciocchezze.
Tra i gas di scarico di vecchie automobili in Piazzale Roma ti vedo andare
via.
Fuori campo e dissolvenza.
      Quello che resta sono soltanto bottiglie vuote da prendere a calci facendo
consapevolmente rumore.
” Tanto tiempo disfrutamos de este amor, nuestras almas se acercaron tanto
asi, que yo guardo tu sabor, pero tu llevas tambien sabor a mi. Na na
na…..
      Non ci ho dormito. Me ne stavo lì a fissare le stelline sul soffitto con
occhi da Simpson. Ok, ok, chiamatemi pure Bart. E giravo e rigiravo i
pollici avanti e ‘ndrè. Ora in senso orario ora in senso antiorario. I
pensieri. Che non ti danno tregua e …
      Ora mi lascio andare.
Ora vi lascio andare. Ma prima vi ascoltate “You go to my head”e “Stars
fell on Alabama”.
      Ragazzina ventenne, non capisci un ca zzo. Sulla base di cosa dici ciò?
Dell’armonia, del ritmo, della melodia?
Dell’arrangiamento?? O forse solo basandoti sul fatto che una cosa ti
prende o non ti prende? Lo sai, io suonavo jazz, ed il mio rapporto con la
musica spesso è “tecnico”, per quanto misero, più che “emozionale”.
      “Un prodotto commerciale con target “alto”? E se invece di vendere milioni
di dischi ne vendeva dieci era bello?
      Ma non hai ancora ascoltato Kind of Blue di Miles Davis, e questa non te
la perdono!
      “Tieniti i tuoi Cocteau Twins!”
      “I miei Cocteau Twins? Questa è buona, Sai negli ultimi dischi sono
diventati un pò delle Mine, cioè troppo pulitini, perfettini, senza alti e
bassi, tutto tranquillo…” E ti eri messa a ridere.
      L’unico al quale confido la cronaca di una domenica insulsa di fine
dicembre è il mio cane.
      Ora sbadiglia stanco.
      Non sa nemmeno che fra due ore arriva un nuovo anno.
      Tu avevi un ragazzo. Diciannove anni. Che non immaginava.
Un pomeriggio ti accompagnò e rimase giù ad aspettarti.
Dopo mezz’ora ti vide scendere le scale.
Partì un bacio. Tu non ti negasti. Era pur sempre il tuo ragazzo.
Conosciuto in chat anche lui?
Ora avevi bisogno di lui. Del tuo ragazzo. Dirgli semplicemente che gli
volevi bene.
Al telefono piangesti.
Vent’anni si capisce poco ma alla fine ci si arriva. E anche se fa male
non ti fai intenerire da lacrime e singhiozzi al cellulare.
Tu che volevi solo un abbraccio.
      Io una birra doppio malto per dimenticare in fretta.
Non ci vedemmo mai più. Nessuno cercò più nessuno. O meglio mi cercasti
ancora per dirmi che avevi lasciato quel ragazzo e ne avevi trovato un
altro. L’avevi trovato in chat e ti eri messa con lui.
      Your answer was goodbye
And there was even postage due.
I fell in love just once;
And then it had to be with you,
Ev’rything happens to me.

mercoledì 27 luglio 2016

Mina Uappa (1976)


UAPPA





Eccomi qui, anche stamattina, e così sarà fino al giorno benedetto della pensione, dietro questo vetro pieno di ditate come quei parlatori carcerari che si vedono in certi gialli americani dell’anteguerra, a timbrare pratiche e a raccogliere prenotazioni di mini kit di Euro…Uffa! Questo "posto d’oro" è la mia maledizione e la mia droga, di cui, dopo ventidue anni, non posso più fare a meno, si sa, per vivere bisogna mangiare, e oltre a mangiare, pagare l’affitto, le bollette, le rate della Punto…E’ subito dopo la mia laurea in lingue che ho accantonato i miei sogni. Tutti quanti. Diventare docente universitaria, girare il mondo, Egitto, Grecia, California.…Invece ho partecipato al dannato concorso, l’ho pure vinto…Ed eccomi ancora qui, signore prego, la sua domanda di fido, l’OPV dell’Olivetti? Ci risentiamo a fine settimana…Eccomi qui a sentirli brontolare tutti quanti come se dipendesse da me se l’indice Nasdaq scende, se Wall Street perde l’1,10% e Milano il 5% per simpatia…Accidenti!

Pausa caffè. La macchinetta lo fa buono, non c’è che dire. Ne bevo troppi e divento nervosa, a casa e in ufficio. Vivo sola. Prenderei un cane, se avessi la possibilità di piazzarlo da qualche parte quando vado in ferie: purtroppo, mia madre è allergica al pelo degli animali e mio fratello fa il magistrato a Ragusa. Il marito? Occasioni ne ho avute, dicono tutte così quelle che, come me, a quarantacinque anni o giù di lì sono rimaste sole come gambi di sedano. I colleghi? Non tocchiamo questo tasto. Ci sono quelle sposate, come la Tonioli e la Fagiani, che non hanno altro argomento di conversazione che sia diverso dal moccio del pupo o da quanto è antipatico il professore di matematica del figlio liceale che, naturalmente, ce l’ha a morte col povero ragazzo (se ne stesse un po’ di più a casa a studiare, invece di rompere i timpani e qualcos’altro a tutto il quartiere andando avanti e indietro senza meta con quel dannato motorino, nemmeno fosse Valentino Rossi!) e non fa che angariarlo... Poverette, le compatisco almeno quanto loro compatiscono me, con quei figli mocciosi e somari e i mariti che si ritrovano, spaparanzati sul divano a godersi la partita di Coppa, con la pancia che deborda e la sigaretta a penzoloni in bocca. Quando, nelle giornate d’inverno, buie, fredde e piovose, la solitudine mi pesa particolarmente, allora penso alla Tonioli e alla Fagiani e mi dico da me "meglio sole che male accompagnate". Per consolarmi.

E le nubili? Oltre a me, allo sportello, c’è la Pellegrini. E’ arrivata da poco, ma non è di primissimo pelo, neanche lei, avrà un paio d’anni in meno di me anche se non lo ammetterebbe neppure se si ritrovasse con un mitra puntato alla schiena, perché ha una fifa boia d’invecchiare. Non molto alta ma vistosa, quinta abbondante di reggiseno, finta bionda con chioma cotonata e occhio languido finto azzurro (mi sono accorta da come sbatacchia continuamente le ciglia, finte è ovvio, che porta le lenti a contatto colorate), minigonne di pelle, finta neanche a dirlo, incollate al deretano, vero, quello, e pure bello grosso. Alla caccia all’uomo, lei non ha rinunciato. Appena arrivata qui, dopo il trasferimento da un altro ufficio, ha puntato il dottor Pasini dell’Ispettorato. Il quale è notoriamente gay. Cosa di cui la poveretta, essendo nuova, non poteva essere al corrente. Ha provveduto quella pettegola della Berti che col Pasini ci bazzica dall’alba dei secoli e di lui conosce vita, morte e miracoli a renderla edotta circa le preferenze sessuali dell’ agognato oggetto di desiderio…Poveretta, lei non demorde, vuole redimerlo a tutti i costi e non fa che sbattergli sotto gli occhi quelle tette esorbitanti a stento contenute dentro il golfino d’angora che lui nemmeno le vede.

Il Balzani, l’archivista in dieci anni non riesce ancora a dare del tu ai colleghi, se ne sta sempre rintanato nel suo archivio polveroso in compagnia di fascicoli e pratiche alla stregua di un topo assediato da un branco di gatti famelici dentro una forma di formaggio e non esce neanche per la pausa caffè. Che diavolo faccia per ammazzare il tempo quando rientra dal lavoro nessuno è mai riuscito neppure ad immaginarlo. Sappiamo che vive con la madre, di cui è l’unico virgulto. Punto e basta. Di altre donne, naturalmente, manco l’ombra dell’ombra, e ci credo: con il suo metro e sessantacinque scarso, le sue spalle sbilenche, i suoi quattro capelli color topo che gli lasciano mezzo nudo un piccolo cranio a uovo, la bocca spropositata che si apre su una chiostra di ponti mezzi sghimbesci ancorati mediante ganci metallici tutt’altro che nascosti ai pochi denti superstiti.

La primavera che ha svegliato finalmente il Balzani dal torpore del letargo è, naturalmente, la Pellegrini con i suoi capelli finto platino, gli occhioni finto ingenuo e finto blu, i maglioncini strizzati sulle tette e via discorrendo. Durante la pausa caffè, o quando si va al bar pizzeria per buttare giù in tutta fretta un tramezzino all’ora di pranzo, l’infelice non le scolla gli occhiali di dosso. Lei, sopporta, finché non troverà un altro sistema per far ingelosire il Pasini che, non fosse così brutto, sicuramente le preferirebbe il Balzani se non altro perché è un maschio.

A forza di dai e dai, finalmente la Pellegrini è riuscita nel tentativo di far ingelosire qualcuno. Non certo il Pasini, visto che di lei non gliene può importare di meno, bensì il Balzani che, poveretto, sta dilapidando i suoi risparmi in rose, cioccolatini e cd di musica soft che lei, cafona, accetta senza rimorsi e, naturalmente, senza concedergli neppure un barlume di speranza, anzi, nemmeno un sorriso e un grazie. Secondo alcune voci, il povero infelice, che incede con l’eleganza di una gallina zoppa, si sarebbe perfino iscritto alla scuola di ballo latino americano che frequenta la Pellegrini…Povero mondo.

Ma adesso basta. C'è stata l’ennesima perdita d’acqua nel cesso dell’archivio.

Il Balzani, secondo il solito, se ne sta rinchiuso nel suo archivio a rimuginare e la Pellegrini continua a sbattere le ciglia e le tette sotto gli occhi del dottor Pasini. La Fagiani e la Tonioli discettano, tanto per cambiare, di moccio e professori antipatici: un giorno come un altro. Finché il fusto non sbuca senza preavviso dal fondo del corridoio; nessuno l’aveva notato entrare, e altrettanti si preoccupano della strana circostanza, anche perché il sifone nel gabinetto dell’archivio era guasto già da un bel pezzo e finalmente qualcuno s’è preoccupato di mandare a chiamare l’idraulico. L’appalto di tali riparazioni ce l’ha il Silvani, che spesso assume come garzoni degli extracomunitari. Rispetto agli italiani, dice, costano meno e lavorano di più. Il gran bel pezzo di ragazzo potrebbe essere l’albanese di cui si vocifera, l’ultimo della serie.

Sta di fatto che tutti alziamo e strabuzziamo gli occhi: la Pellegrini, la Berti, la Fagiani e Pasini. E anch’ io, naturalmente, con i miei occhialetti tondi, io che godo di più ad addentare una fetta di pane casereccio spalmato con nutella che a scopare, io che da tutti i pochi fidanzati che ho avuto mi son sempre sentita dare della frigida e, per giunta, mi ritrovo in pre menopausa, quindi bella e che andata. Resto lì a guardarlo scomparire nell’archivio e penso: un uomo del genere dovrebbe essere a Hollywood, non qui a tentare di rimettere a posto la canna del cesso.. . E’ proprio vero che non c’è giustizia nella vita.

Mamma, quanto è bello. Per dirla in burocratese, sembra la fotocopia autenticata di Andy Garcia. Sia lode a tutti i numi per il guasto del sifone. Un guasto più serio del previsto, dato che da ormai tre giorni il clone albanese di Garcia sta tentando, si suppone senza successo, di rimetterlo a posto. Come idraulico sarà anche un fallimento, ma è davvero una gioia per gli occhi, mi dico tra me e me vedendolo balenare con la sua testa bruna e la chiave inglese in mano attraverso le ante della porta. Unico appunto: veste tremendamente male. Anzi, oggi, in t shirt bianca e jeans è perfino passabile, sembra un ragazzo dei tanti, solo servito più generosamente da Madre Natura. Il mio pensiero corre subito ai sacchi della Caritas e al fatto che non ci sia davvero nessuna giustizia nella vita…Meglio che torni alle mie scartoffie e ai mugugni degli utenti e che continui a sfogare le mie libidini represse sul pane spalmato di nutella, accidenti ad Andy Garcia, agli scafisti e alla canna del cesso.

Dalla mia scrivania è sparita la pratica della successione di De Filippo Antonio e devo entrarci io nell’archivio. Io armeggio tra gli scaffali e intanto lo sento canticchiare, qualcosa di Robbie Williams, mi sembra, in un ottimo inglese e pure con una bella voce. Accidenti a lui, mi domando e dico, perché non ha fatto il cantante invece dell’idraulico? Come tale è proprio un fallimento, visto che sono ormai sei giorni che armeggia col sifone senza riuscire a combinare niente, penso prima di ritrovarmelo davanti, inquadrato dall’apertura della porta, con lo sfondo delle mattonelle bianche e del cesso scassato, la chiave inglese in mano, i lunghi riccioli appiccicati al collo dal sudore e un sorriso da sciogliere di botto tutti i ghiacciai delle Alpi. Lo guardo. Mi guarda. Ha le stesse sopracciglia folte e dritte, gli stessi occhi castani sornioni dell’originale. Lo guardo. Mi guarda. Ha gli occhi teneri e maliziosi, una bocca da baci incorniciata dai peli della barba. Vattene a lavorare, torna ad armeggiare col sifone del cesso, maledetto demonio, prima che io mi metta ad armeggiare con il tuo…Ah! Ho la gola secca e mille pensieri che mi turbinano nel cervello. Hai quarantacinque anni e sei sempre stata una ragazza giudiziosa, Anna. Quello ne avrà sì e no trenta…Stai diventando peggio della Pellegrini, non ti vergogni? E poi guardalo com’è vestito, con gli stracci della Caritas, chissà chi è, non conosci neanche le sue generalità, sicuramente è senza permesso di soggiorno, alla fine sarà pure sporco. Vai a casa, fatti una doccia poi guardati la videocassetta che hai noleggiato al Blockbuster sbocconcellando una bella fetta di pane casereccio spalmato di nutella, che è meglio.

Continua a contemplarmi adorante, neanche fossi la Ela Weber nuda sul calendario, invece di una quarantacinquenne occhialuta in pre menopausa e con qualche chilo di troppo imputabile al consumo massiccio di nutella spalmata sul pane. Lo guardo di rimando, accidenti è bellissimo. Socchiude gli occhi, che ciglia lunghe che ha. Si passa piano la punta della lingua rosea sul labbro superiore, e sento che il cervello mi va in tilt con tutto il resto. Ragiona, Anna, finché sei ancora in tempo…A casa ti aspettano un bel film, la tua nutella e, dopo, otto ore filate di sonno…Purtroppo il film che ho noleggiato è "L’albero degli zoccoli", la nutella l’avrei spalmata su qualcosa di molto diverso dal pane e soffro pure d’insonnia, con tutti i caffè che tracanno e le sigarette che fumo.

- No, non qui. Andiamo a casa mia.

Parla poco, ma il suo italiano è ottimo. E beve parecchio, s’è tracannato mezza bottiglia di whisky finita a casa mia chissà come. Pensare che ero convinta che gli albanesi, da buoni musulmani, non bevessero di quella roba là. Mi tocca scoparmelo alticcio, penso, anzi sbronzo da non stare in piedi, ma sembra reggere bene l’alcol. Si spoglia, e intanto non smette di fissarmi con i suoi occhi di fuoco. Via la t shirt. Resto senza fiato: braccia poderose, spalle da armadio, la schiena un groviglio di muscoli e il petto…Il più fantastico cuscino su cui una donna possa desiderare di poggiare la testa. E’ chiaro di carnagione, non troppo villoso. Nel mio cervello turbinano i pensieri, le emozioni e le sensazioni più incredibili. Lo abbraccio, gli mordicchio il labbro inferiore, lo bacio, comincio io, lui risponde, sembriamo due pazzi invasati. La bottiglia che tiene in mano finisce in mille pezzi sul pavimento, non capisco più niente, gli succhio il lobo dell’orecchio, quella gola fantastica che si ritrova, impazzisco solo a vederlo deglutire, lo mordo, lo lecco, vorrei strappargli di dosso i calzoni della Caritas, ma mi limito, per ovvie ragioni a calargli la cerniera e ad aiutarlo a toglierli…Lui non è da meno, mi spoglia, mi accarezza, mi bacia, con un trasporto e una passione sempre crescenti, sembra che stia davvero con la Ela Weber del calendario invece che con una quarantacinquenne frustrata da un lavoro ignobile, che ha la cellulite sul sedere, si tinge i capelli perché ne ha un mucchio bianchi e ha fissato l’appuntamento con l’oculista per farsi gli occhiali da presbite.

Facciamo tanto di quel casino da rischiare di veder crollare i muri.


Su non parliamo più

Se mi tocchi così

Ci vuol poco a confondermi

Tienimi

Se ti scappo prendimi

E non smettere

Sono pronta ad arrendermi

Uappa Uappa

Non posso fare a meno di te

Uappa Uappa

Non devo eppure ho voglia di te

Sai che io non sono abituata a bere

Basta mezzo bicchiere

E’ bellissimo un discorso più intimo

Uappa Uappa

Non posso fare a meno di te

Uappa Uappa

Non devo eppure ho voglia di te

Poi fra i miei capelli affonda le tue dita

Io mi sento sfinita…

E non ridere

Se io grido non ridere




Sdraiata sul letto, mi fumo la mia sigaretta e lo guardo, gli occhi socchiusi ombreggiati dalle lunghe ciglia e solo un lembo di lenzuolo a coprirgli ciò che è indecente mostrare in giro ma che gli ho visto in tutti i suoi dettagli e onorato come meritava. Pensare che non so neppure come si chiama.

- Tutte le volte che vuoi, caro…

- E’ la prima e l’ultima, mi risponde lui. Ha una bellissima voce cupa e profonda e parla l’italiano molto bene. Ci rimango male, mi ha visto le rughe e la cellulite, penso, mi ha visto le tette che non possono certo competere con quelle della Pellegrini e non vuole più saperne di me…

- Non prendertela, mi sussurra all’orecchio e ne approfitta per mordermi il lobo. Piano, prima, poi abbastanza forte da farmi quasi male. Sto per impazzire.

- Ti scade il permesso di soggiorno?

Gli trapelano, tra i peli della barba, le fossette sul mento e sulle guance. Non mi prendessero per pazza, potrei vantarmi d’essermi scopata Andy Garcia, ma è solo un ragazzotto albanese senza permesso di soggiorno, e non so neppure come si chiama. In ogni caso, sia resa sempre lode allo scafista che l’ha portato qui in Italia.

Schiaccio la cicca della sigaretta nel posacenere, mi chino su di lui e gli bacio il petto, proprio in mezzo allo sterno. Ha una pelle morbida e calda.




La favola è quasi finita. -mi sussurra triste con il suo vocione grave- A mezzanotte di domani scade il permesso di soggiorno…


Il cesso in fondo all’archivio è sempre guasto, anzi, forse è più guasto di prima, ma il Balzani non si lamenta. Lui è uno che soffre in silenzio tra le scartoffie, senza lamentarsi mai. La Tonioli e la Fagiani appena possono discettano sugli ultimi sviluppi del moccio del figlio piccolo e del traballante curriculum scolastico di quello liceale. La Pellegrini si è messa in ferie, contrariamente al suo solito (le prende sempre d’estate, per mostrarsi all’universo mondo in topless sulla spiaggia di Riccione), in attesa che venga accettata la domanda di trasferimento appena presentata. Motivi familiari. Io, che conosco la verità, trattengo a stento uno sghignazzo. "Poscia più che il dolor, poté il digiuno". La Pellegrini ha abboccato all’amo del Balzani e se l’è portato nella sua mansardina…Cenetta a lume di candela, a base di champagne e pietanzine afrodisiache, luci soffuse, musichetta sdolcinata. Immagino come dev’essersi sentita quando incollata come una ventosa sulla tetta sinistra c’era la ben nota boccaccia con i suoi ponti di resina e acciaio e la lingua patinosa. Non occorre molta immaginazione per intuire lo stato d’animo della poveretta in quel momento: lo stesso del tizio, al quale era stato servito serpente in umido gabellandolo per capitone.

"Signore prego, la sua domanda di fido? Sono in attesa della delibera. Vuole che le illustri l’OPA della BNL? Ripassa Lei? Tenga, il mio biglietto da visita. Il numero telefonico è cambiato.…Non si preoccupi per l’Euro. Ci sarà la doppia circolazione fino a febbraio. Microinflazione? Beh, non lo escluderei…Eccomi qui a sentirli brontolare tutti quanti come se dipendesse da me se l’indice Nasdaq scende, se Wall Street perde l’1,10% e Milano il 5% per simpatia…Accidenti! Oh! Auguri anche a Lei. Buon Natale. Sì, i calendari ci sono. Ne prenda pure uno. Sono sul bancone. Di agende mi sono rimaste solo le piccole...Ma se ripassa la settimana prossima Le metto via una di quelle grandi. Buon Natale!" 


22.12,2001


domenica 24 luglio 2016


Another August Day


It’s just another August day.
Facing reality brings too much pain and fear
A numbness that will stay 
For years to come. 
I’m left shattered,  
I’m left confused, 
I’m left alone, 
While I lay in my bed, 
Listening to the annoying voices of the radio, 
I know it was really too good to be true.


Paolo Driussi.

Stefano Russo - Passione




giovedì 30 giugno 2016

July





As I’m lying on the beach behind the cabins,
The place we were used to go,
I can hear far away the sound of the sea.
It's almost noon.
Digging my fingers in and out of the hot sand,
I miss the touch of your hand.
We are in July.
Is it too early?
Is it too late?
As I’m lying under the blue sky,
Drowning in an ocean of memories,
My mind goes to a time
When I was just a little boy
Playing with sand.
And you were by my side.

Paolo Driussi

lunedì 30 maggio 2016

In the June Light


We were flying like blindfolded gulls,
Over the roses in the June light.
But that was a long long time ago,
During our youth
So irresponsible, so ignorant.

Paolo Driussi

lunedì 2 maggio 2016

On a Late May Evening



You must not be surprised
If, living under your spell,
I will call your beautiful eyes my stars,
My destiny, my everything.
On a late May evening
Your kisses will make me drunk
And if I do not die of those kisses
I will not be worthy of life.

Paolo Driussi

lunedì 28 marzo 2016

APRIL SEA

 

Tomorrow it will still be love,
You and me
In the early afternoon on the solitary beach
In front of this April sea.
A little shy, a little excited.
Who knows!
After one year, you so close to me,
Almost by accident.
Do you want?
Don’t say it.
I do not want to know.
Let it remain a dream,
That can reveal gradually,
Maybe in a better way
From how I imagined it.

Paolo Driussi

lunedì 29 febbraio 2016

THIS RAIN OF MARCH



When friends are gone,
The words will be lost in your mind,
You will know they are there,
But it will be as if they could not come from your own lips.
They will be pushed into the circle of your mind,
As fast as the drops of this incessant rain of March
Wandering from side to side,
Bouncing along the glass of the windows
And darting away.
Then you’ll understand that the meaning
Will be in the pleasure of being welcomed at last
After so long a time
Into another’s world.

Paolo Driussi.





mercoledì 3 febbraio 2016

FEBRUARY SUNDAY EVENING




Occasionally
But even more at the end of a Sunday
I start to think that
if there’s a hard currency to spend,
This is the time.
Where are you? I cannot see you.
Have you already gone?
There is no age or social class,
Or profession in which
The human being doesn’t own
This currency of the time
And is not subject to the dilemma
Of how to spend it.
Or to the sad embarrassment
Of not knowing how to spend it
Or the misery of a lazy 
And indifferent squandering
As if it were a  devalued currency.
Shall we meet again? 
Reply to the message, please
Slowly the train starts 
In this sad February Sunday evening.

Paolo Driussi.

sabato 9 gennaio 2016



JANUARY SNOW




 
When I was alone, chilled to the bone,
I lit a cigarette
In a state of absence;
A stunning devoid without defence.
Today we left on two parallel trains
Marching in the same direction
Very slowly under the snow
This unpredictable January snow.
All of a sudden
The tracks began to diverge
To bend mine toward the right
And yours to the left.
The speed will increase
Each one will be alone
Along his own path
An immense space between us,
Incredible, white.
From tonight and forever.

Paolo Driussi