domenica 7 agosto 2016

MINA (1964)


di Paolo Driussi
      L’elettricità nella spazzola, nelle mani, in un pacchetto di sigarette
fumato in poche ore, nelle pagine spiegazzate di un quotidiano. I capelli.
Non riuscivo a dargli un verso.
L’elettricità di un incontro. L’e-mail se ne stava lì, muta, nel rifugio
del mio computer.
Gli occhi fermi su quelle parole. Mi usciva tra le labbra uno smozzicato
“Possibile?”.
Volevi incontrarmi. Farmi i complimenti, leggere altre cose.
      Decisi che ti avrei incontrata. Prima l’emozione di una breve telefonata.
Così ti avrei trovata e infine ti avrei parlato. Ma non parlato e basta.
Parlato…parlato….parlato….
Ci incontrammo. Vent’anni. Avevi barato sull’età. In chat mi avevi detto
d’averne trentacinque. Io e te. Trentasette anni di differenza.
Sempre meno di quaranta.
Avevi portato con te cinque cartelle dattiloscritte tra le mani, cinque
giorni di attesa, cinque le dita bianche senza anelli, cinque le fermate
del vaporetto.
Tu, vent’anni, gli uomini li conoscevi poco.
Gli uomini, quelli che popolano i racconti, sono un’altra storia.
Parlammo di Rimbaud e di Apollinaire. Ti dissi brava. Tu arrossisti. Poi
partì un bacio. Un bacio di quelli che non ti aspetti. Nel mio studio a
San Polo. Con la foto di mio figlio. Vent’anni.
Che non sa di suo padre. Sa soltanto che scrive e ogni tanto lo vede su
Televenezia.
Io ti chiesi scusa. Tu arrossisti. Ti diedi un altro bacio. Ci vedemmo
altre volte. Nel mio studio. Parole e baci.
Mercoledì mattina sei uscita dalla doccia vestita soltanto di un
asciugamano arrotolato in testa sparando decisa un: ”Ho deciso di non
dormirci più da te!”
      Io tiravo freccette ad un bersaglio a forma di cuore, il mio, ti vedevo
riflessa sulla porta a vetri mentre sgocciolavi in verticale acqua dai
capelli sul parquet, ai piedi le mie pantofole, sulla tua pelle l’odore
penetrante del mio bagnoschiuma al sandalo.
Istantanee di te.
Tu continuavi a fissare un qualunque punto del pavimento.
Ho unito con una linea immaginaria quel punto ai tuoi occhi, alla distanza
tra noi, a casa tua alla Giudecca. Poligoni di memoria, periferiche mal
collegate.
      Hai sciolto l’asciugamano mentre mi dicevi: “Il rumore, possibile che non
te ne accorgi? I vaporetti, l’ascensore, quelli che escono presto la
mattina, le molle del materasso…”
Elenco così preciso e dettagliato da far sembrare la mia dimora
un’acciaieria. Guardavo i miei CD in bellavista sul muro.
      Mina. Del 1964. “Lo sai che Mina nel 1964 quando aveva poco più della
tua età, ha inciso un album intero di classici standard americani.
Guarda. Ci sono brani come Stella By Starlight e Everything Happens To Me.
In particolare quest’ultimo è estremamente suggestivo e non sfigura
affatto accanto a versioni più note come quella famosa di Chet Baker”.
Hai indossato un paio di collant neri di quelli con i ghirigori e hai
detto un no convinto allo Scottex per asciugare l’acqua sul parquet.
“Personalmente ho dei dubbi, non perché Mina non abbia talento come
cantante jazz, ma perché quando interpreta gli standard americani si sente
che manca una componente essenziale delle sue interpretazioni: l’abbandono
espressivo dettato dalla consapevolezza dei testi che invece possiede sul
repertorio italiano, dove a mio avviso dà il meglio”.
      Le note di “The Nearness Of You”. L’ha rifatta recentemente anche in “Mina
in Studio 2001”, ma già quarant’anni fa era sublime. Che ne sa questa
cretinetta?
      Io abile giocatore di poker con i miei silenzi in dotazione, tu con una
voglia femmina di vedermi le carte, magari è solo un bluff, aspettando che
qualcuno di noi due passi la mano o veda o si produca in un eloquente cip.
      Hai preso le tue cose dal mucchio e le hai stipate in una busta di
plastica, lasciando impronte di borotalco sul parquet.
Poi hai sbattuto la porta e te ne sei andata. La musica, quella, non si
ferma. Mina canta “Angel Eyes”. Socchiudo gli occhi, mi allungo sul divano
e accendo un’altra sigaretta.
      Fra due giorni proverò a chiamarti o a mandarti un fax con un cuore
disegnato.
Fra due giorni non troverò la carta e rinuncerò all’idea.
Schiaccio naso e labbra contro la vetrina della pasticceria sotto casa
sbavando per quel vasto assortimento di pasticcini così sboccati e
irriverenti che sembrano volermi dire “ Vieni, vieni…”.
      Ho sottobraccio quel che resta di una baguette e nell’altro un poster
arrotolato di Ursula Andress nel film “Agente 007 – Licenza di uccidere”.
E’ rimasto appeso in camera mia per non so quanti anni e così, mi sono
detto, prima di tinteggiare la mia stanza, lo porto un po’ in giro (il
poster) a fargli vedere come nel frattempo il mondo è cambiato, che ora
vai per girarti e sbatti il muso contro una multisala o un Internet Point.
Per non parlare poi della gente che si scambia baci e vestiti e amorosi
sensi lungo calli deserte. Quindi non sorprenderti, mia cara Ursula, se
dovessi vedere un uomo in gonnella.
E’ una cosa normale di questi tempi.
Certe volte ci rifletto. Mi vedrei bene in kilt, ci ho pensato più di una
volta, che se fossi nato in Scozia avrei finito per mangiare quantità
considerevoli di salmone affumicato e bevuto della buona birra. Poi avrei
partecipato a numerose parate di uomini in kilt con sottofondo di
cornamuse e mi sarei fatto finanche fotografare al bordo della strada
mentre piscio insieme ai miei amici scozzesi sollevando il gonnellino quel
tanto che basta.
Io era da un po’ di tempo che volevo dirtelo ma non trovavo le giuste
parole e la giusta occasione.
Poi dici che uno si butta nella scrittura o a sinistra che poi è la stessa
cosa!
Che certe cose le devi per forza scrivere, non puoi rinchiuderle nel
recinto dei tuoi pensieri e sperare, col tempo, di addomesticarle come
faceva Robert Redford ne “L’uomo che sussurrava ai cavalli”.
Dunque stavo dicendo…”Ninguen me ama”, ma no il fatto è che spesso mi
perdo nei miei ragionamenti. Ursula Andress, mi dispiace dirlo, è
invecchiata pure lei. Ha perso quel fascino androgino che tanto le donava.
Credo sia arrivato il suo tempo.
In un cassonetto differenziato, tra batterie scariche e medicinali
scaduti, mi fermo dubbioso a riflettere mentre la vita mi passa davanti
incurante della fila e delle buone maniere. Saluto con tanto di
lacrimuccia la Ursula adagiandola dolcemente al lato del cassonetto.
Chi mi ha visto baciare un poster vicino all’immondizia non si sarà fatto
una buona opinione di me.
Le voci che allegramente bivaccano sulla mia testa mi consigliano di
fottermene.
E io, che non me lo lascio ripetere due volte, prendo atto e me ne fotto!
      Leggo luci al neon, con sguardo sfuggente, da un vaporetto che ruba
intimità alle case che si affacciano sul canale, rese vive da stanze
accese, madri di vite che non mi appartengono.
Rubo attimi da mollette colorate e panni stesi ad asciugare che disegnano
fantasie di arcobaleno dipinte, dentro me.
      Nascono realtà non tangibili che mi attaccherò sulla pelle, tremando di
emozione, cosciente del mio invadere spazi che non mi riguardano, ma che
sento, io, che non appartengo a nulla, io, che faccio parte di tutto, oggi
come ieri. Non sarò qui a bussare. “Dicen que la distancia es el olvido,
pero yo no concibo esta razon”. Adesso ho appena copiato il Cd per Marino,
che si è quasi messo a piangere di gioia quando ha saputo che questo Mina
del 1964 ce l’avevo in casa.
      Beh, bello, ben fatto e molto ben confezionato.
Del resto… Mina è Mina, ed a chi non piace Mina? Non piace alla
ragazzina. Ma di certo non sarò qui a chiedere il permesso a lei di
continuare ad ascoltare ciò che mi piace. Mi troverete lì a masticare
patatine fritte e bere succhi vitaminici, a guardare la tv sdraiato sul
divano, annoiato e indifferente, perso in pensieri che vi ruberò per
alleggerire un po’ il cuore, a spiarvi mentre fate l’amore padri e madri e
amanti e giovani alla ricerca di un paradiso, in cui non svendersi e
piegarsi mai, a leggere un libro per non sentire la solitudine che
opprime, a piangere sul letto, mordendomi le mani, per non urlare,
togliendovi il dolore che soffoca e non importa da dove arriva, è pur
sempre dolore.
“Stella by starlight”: la consapevolezza di non essere un gabbiano mi fa
sentire inutile.
Non sarò io ad aspettare che mi si conceda un momento libero e giusto per
immaginare.
Il vaporetto è arrivato alla stazione di Santa Lucia.
Quando sembra che io non abbia nulla da dire.
Quando sembra che io stia volando via lontano, su tappeti fiabeschi che
non portano in cieli sereni.
Quando sembra che io sia sempre sul punto di raccogliere pensieri tristi
dal cuore.
Quando non si sa mai cosa c’è dietro uno sguardo che smette di parlare.
Non le piaceva nemmeno questa. “Non sono d’accordo. Mina a mio parere
manca completamente di senso di dramma, di blues feeling. E d’altra parte
la scelta del suo repertorio, da “Ma che bontà, ma che bontà, ma che cos’è
questa robina qua” a “Quando la banda passò”, credo non lasci dubbi”.
      Ritorno verso casa con forse troppe luci al neon lette e troppi panni
stesi ad asciugare e troppe mollette colorate e troppe fantasie per poter
raccontare senza rischiare che tutto sfumi, perdendosi tra smog e stelle
di cartone.
      Ah, Insensatez que voce fez, curacao mais sem cuidado…
      La ragazzina sparava le sue cazzate: “Voglio dire che le sue canzoni le
trovo, in sostanza tutte eguali, pochissimi guizzi creativi, buttati a
bella posta qua e la per cercare di accontentare anche gli ascoltatori
dotati di un minimo di senso critico. Tutta la produzione di Mina che ho
sentito, l’ho trovata niente altro che un prodotto commerciale con target
“alto”. Lo stesso vuoto spinto dei Take That, Giorgia, Samuele Bersani.
Solo confezionato per un target diverso”
      Quello che sembra non è, quello che è non ci appartiene, qualcosa ci
manca.
E quel qualcosa ci stanca. Continuo ad esprimermi attraverso le parole
delle canzoni perché tutto è stato già detto.
      “E se domani, io non potessi rivedere te. Mettiamo il caso che ti sentissi
stanco di me…” I miei diciassette anni…
      “Io ti dico che non puoi esprimere questi giudizi su Mina se la conosci
poco. Ma alcune sue cose che hai sentito dovrebbero bastarti per aver
voglia di ascoltarla o provare a conoscerla di più. Hai sentito la
versione della Canzone di Marinella nell’ultimo album di De André? Credo
sia un vertice assoluto!
Un disco ha tanti livelli di ascolto ed uno di questi può essere la
“confezione”, cioè l’arrangiamento. Inoltre questi personaggi sanno
circondarsi di musicisti di livello altissimo e scoprirli tra le righe è
una mia passione. Non a caso nella canzone di De Andrè, suona il piano
Danilo Rea, che è uno dei migliori jazzisti italiani! Inoltre spero che tu
non creda che per me Mina è un dogma, però se canta una canzone che a me
piace, perché non dovrei ascoltarla?
      Tu hai ripreso a disegnare alberi. Ti ho sognata mentre con un dito
tracciavi il vetro appannato di una Stilo bianca e scrivevi un nome e poi
lo cancellavi.
Questo hai fatto nel chiaroscuro di una notte stelle basse e cielo
capovolto.
Ritorno ai profumi di quella che è la mia vita, quando non c’è più nessuna
voce e nessuna luce e nessun rumore da cogliere, solo stracci di sonno a
riscaldarsi al calore del radiatore e il mio raccolto, da tenere stretto,
prima che si trasformi e inondi il barile dei pensieri tristi, da tenere
stretto, perché resti puro, a colmare la mente, a partorire sogni. Ogni
notte.
La mia buonanotte. “Non illuderti, non devi illuderti…”
      Ho messo quel che resta della mia anima in frigo accanto a una bottiglia
di Moet & Chandon che non berrò mai. Ma mi piace pensare che stia lì. La
bottiglia.
A chiacchierare con l’anima ed i limoni. Qualche volta li compro e
fottendomene della scadenza li vedo che lasciano questa vita terrena
avvolti in un mantello verde muffa che tanto va di moda tra le persone
comuni.
Questa notte.
Vestita di reggae e di altre sciocchezze.
Tra i gas di scarico di vecchie automobili in Piazzale Roma ti vedo andare
via.
Fuori campo e dissolvenza.
      Quello che resta sono soltanto bottiglie vuote da prendere a calci facendo
consapevolmente rumore.
” Tanto tiempo disfrutamos de este amor, nuestras almas se acercaron tanto
asi, que yo guardo tu sabor, pero tu llevas tambien sabor a mi. Na na
na…..
      Non ci ho dormito. Me ne stavo lì a fissare le stelline sul soffitto con
occhi da Simpson. Ok, ok, chiamatemi pure Bart. E giravo e rigiravo i
pollici avanti e ‘ndrè. Ora in senso orario ora in senso antiorario. I
pensieri. Che non ti danno tregua e …
      Ora mi lascio andare.
Ora vi lascio andare. Ma prima vi ascoltate “You go to my head”e “Stars
fell on Alabama”.
      Ragazzina ventenne, non capisci un ca zzo. Sulla base di cosa dici ciò?
Dell’armonia, del ritmo, della melodia?
Dell’arrangiamento?? O forse solo basandoti sul fatto che una cosa ti
prende o non ti prende? Lo sai, io suonavo jazz, ed il mio rapporto con la
musica spesso è “tecnico”, per quanto misero, più che “emozionale”.
      “Un prodotto commerciale con target “alto”? E se invece di vendere milioni
di dischi ne vendeva dieci era bello?
      Ma non hai ancora ascoltato Kind of Blue di Miles Davis, e questa non te
la perdono!
      “Tieniti i tuoi Cocteau Twins!”
      “I miei Cocteau Twins? Questa è buona, Sai negli ultimi dischi sono
diventati un pò delle Mine, cioè troppo pulitini, perfettini, senza alti e
bassi, tutto tranquillo…” E ti eri messa a ridere.
      L’unico al quale confido la cronaca di una domenica insulsa di fine
dicembre è il mio cane.
      Ora sbadiglia stanco.
      Non sa nemmeno che fra due ore arriva un nuovo anno.
      Tu avevi un ragazzo. Diciannove anni. Che non immaginava.
Un pomeriggio ti accompagnò e rimase giù ad aspettarti.
Dopo mezz’ora ti vide scendere le scale.
Partì un bacio. Tu non ti negasti. Era pur sempre il tuo ragazzo.
Conosciuto in chat anche lui?
Ora avevi bisogno di lui. Del tuo ragazzo. Dirgli semplicemente che gli
volevi bene.
Al telefono piangesti.
Vent’anni si capisce poco ma alla fine ci si arriva. E anche se fa male
non ti fai intenerire da lacrime e singhiozzi al cellulare.
Tu che volevi solo un abbraccio.
      Io una birra doppio malto per dimenticare in fretta.
Non ci vedemmo mai più. Nessuno cercò più nessuno. O meglio mi cercasti
ancora per dirmi che avevi lasciato quel ragazzo e ne avevi trovato un
altro. L’avevi trovato in chat e ti eri messa con lui.
      Your answer was goodbye
And there was even postage due.
I fell in love just once;
And then it had to be with you,
Ev’rything happens to me.

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