sabato 28 dicembre 2019

Ripropongo un articolo di mio padre Giuseppe, già apparso nelle rubrica “Lettere al Direttore” – Messaggero Veneto di martedì 29 dicembre 1998).
Le bombe sulla città in quel pomeriggio invernale.




Apprendo dal Messaggero, che gran parte degli udinese fatti allontanare nella mattinata di domenica 6 dicembre 1998 per il brillamento di una bomba di probabile fabbricazione americana riaffiorata il mese precedente in un cantiere di viale XXIII marzo, ha vissuto l’evento come un’occasione per fare shopping in città, per dirigersi verso centri turistici invernali o andare a pranzo negli eleganti ristoranti dei dintorni. Pochi gli anziani confluiti all'Istituto Tecnico Malignani, dove avevano predisposto le cose in grande per accogliere almeno quattrocento ospiti. Quasi nessuno ha ricordato le tragiche giornate vissute dalla popolazione alle fine del 1944, quando Udine fu oggetto di pesanti bombardamenti da parte degli Alleati. Mi permetto di farlo io attraverso la cronaca delle mie vicende e quelle dei mie familiari.
La sirena dell’allarme mi aveva indotto a chiudere la drogheria anzitempo in quel primo pomeriggio di venerdì 29 dicembre. Ad aiutarmi nel negozio di via Gemona appena avviato non era rimasta che mia figlia Nives allora non ancora quindicenne. Inforcate le nostre malandate biciclette, una dietro all'altro, io e mia figlia avevamo attraversato la città, da via Gemona a viale Palmanova mentre le case si svuotavano e la gente correva verso i rifugi. Mia moglie Sara e Milvia, la figlia minore allora decenne, ci attendevano ansiosamente. Il tempo di mettere al riparo le biciclette e di andare a nasconderci tutti quanti nel canaletto del fossato coperto da pietre. Uno accanto all’altro, accovacciati, quasi seduti in fila assieme ad altra gente. Le bombe cominciarono a piovere giù. Sentimmo quasi all’istante la deflagrazione violentissima e vicinissima, come se ci fosse stato un sommovimento tellurico. Sembrava che una quantità colossale di sassi fosse stata divelta dal terriccio. In realtà, come mi accorsi dopo, si trattava di schegge di ferro appuntite e arcuate che penetrarono pure nel canaletto ove eravamo rifugiati e che se fossero passate cinque centimetri più in basso ci avrebbero uccisi tutti. Obiettivo era la linea ferroviaria. Volevano colpire i locomotori, privando i tedeschi della possibilità di muovere i loro convogli. Gli Alleati arrivarono ma non come se lo aspettava la popolazione. Le bombe cadevano fitte, una dopo l’altra, dentro la città sulla quale le nuvole bianche delle esplosioni si moltiplicavano. Il rumore della distruzione intorno si ampliava fino a diventare un suono terribile. Quando ritenemmo che i bombardamenti fossato cessati uscimmo. Il viale aveva un aspetto spettrale. C’erano morti ovunque. Una quantità enorme di rami divelti dagli alberi giaceva sul piano stradale. “La mia casa, la mia casa! I me gà butà zo la casa!” Tra un vortice di schegge e crolli di muri maestri, anche una parte della nostra modesta abitazione era stata lesionata. Un silenzio artefatto pesava nei campi soffocati di polvere e calcinacci. Una donna che era con noi nel rifugio si torceva le mani. Dal cappotto le sfuggivano i lembi del grembiule. Aveva capelli scomposti. Si appoggiò al tronco di un albero, come per sostenersi da un improvviso capogiro, Cercava il figlio e ne chiamava il nome con voce accorata. Lo ripeteva con forza, perché il figlio tardava a rispondere. Mia moglie la consolava. “Signora, la vederà che lo trova. El sarà andà a rifugiarse da un’altra parte”. Lo trovammo noi. Morto in un fosso. Ai Molini sul Ledra una scuderia era stata colpita in pieno, quella dove stallavano i cavalli adibiti ai trasporti. Finiti i bombardamenti, dai Molini i titolari Muzzati e Magistris si affrettavano a piedi diretti in città per vedere che fosse successo delle loro case. Per lo più si erano salvate.
C’era di nuovo il silenzio con appena un’eco metallica in lontananza dalla parte dov’era scomparsa la squadriglia e non si udivano che i pianti e le invocazioni della gente. Su un carro trainato da buoi giunse mio suocero. Dal Cormor avevano visto le bombe che cadevano sulla città. “Cemut faseiso a stà sot chestis bombis?! Vie, vie! Cjariin la robe che us meni sul Cormor a cjase mè”. Assieme a lui, mia moglie e le mie due figlie, caricai il mobilio, i letti, i materassi, le nostre masserizie. Era venuta ad accertarsi sulle nostre condizioni anche mia sorella Emilia. Dalla casa di riposo di via Pracchiuso, dove da poco si era ritirata, aveva percorso viale Trieste. Ce la descriveva con crateri enormi della profondità di venti, trenta metri. S’intrattenne con noi fino a quando tutte le nostre cose furono caricate sul carro. Nella casa di viale Palmanova rimase solo il pianoforte a noleggio su cui studiava Milvia, la mia figlia minore, e che, recuperato in un secondo tempo, fu riportato al proprietario. Calava la sera di quella giornata d’inverno, mentre sul carro trainato dai buoi compivamo il tragitto da viale Palmanova al Cormor, frastornati, prostrati, incapaci di pensare a niente. Quella sera non fu possibile ascoltare quanto diceva il colonnello Stevens da Radio Londra nel suo perfetto italiano. Girata la manopola più volte e inutilmente, prima di spengere la radio, disturbatissima, ascoltai una voce cantare: “A Capo Cabana ti rubano il cuor, a Capo Cabana si vive l’amor!”. Ci eravamo caricati stanchissimi, la mente carica di considerazioni gravi che oscuravano il nostro futuro, lo rendevano preoccupante e problematico. Io avevo atteso il sonno pazientemente, parlando a bassa voce con Sara, mia moglie, alla ricerca a delle sue parole buone, ispirate dal suo carattere calmo e riflessivo, le parole che avrebbero potuto aiutarmi a cancellare i miri tristi pensieri. E il giorno seguente dimenticavo, riprendendo a lavorare con accanimento.
Giuseppe Driussi
(da Lettere al Direttore – Messaggero Veneto di martedì 29 dicembre 1998).

giovedì 26 dicembre 2019

I'm just waiting to see the world 







I'm just waiting to see the world 
From a freer point of view.
Failure leads to more waiting, 
And that just won't do.
The first try must work,
The world will be mine.
It can soon be mine.
Until then
I fly at night,
With my love,
But only in dreams.

Paolo Driussi.

venerdì 13 dicembre 2019

I presepi della mia infanzia








Io mi ricordo un presepio con i personaggi ritagliati dal Corriere dei Piccoli. Si comperava il "Corrierino" dove in una pagina c'erano le immagini di San Giuseppe, Maria, il Bambino Gesù e due pastori. Si ritagliavano, e si mettevano in piedi, e poi si incollavano. Al posto della colla, si prendeva della farina bianca, la si mescolava con dell’acqua, si faceva una pappetta, dopo di che si incollavano le figurine sopra il cartone, e quello lì era il presepio.
Ma a me non dava molta soddisfazione. Io preferivo quello vero, non quello ritagliato dal Corriere dei Piccoli.
L’unica stanza riscaldata era la cucina. Avevamo pure una stufa di terracotta nel tinello in fondo al corridoio, ma la si accendeva, solo se avevamo ospiti. Non c'era riscaldamento nelle altre stanze.
Nelle sere di dicembre, al ritorno dal catechismo, con mia sorella andavo a cercare il muschio per il presepio. Lo staccavamo dai muri con un coltellino. Il presepio lo preparava lei utilizzando il "lavador", la tavola di legno che la mamma usava per lavare il bucato a mano. Il 24 verso le undici di sera con il primo suono delle campane qualcuno dei miei familiari si imbacuccava e  usciva per andare alla messa. Me lo raccontavano l’indomani. Io alle nove ero già a letto


Non trovavo regali al risveglio. A me i doni li aveva già portati Santa Lucia.

Ma chissà dove ci sono dei bimbi, se il Natale avrà ancora la magia che aveva per me quand'ero piccolo? Faranno il presepio, gli addobbi alle finestre? Preferiranno l’albero con le sue lucine intermittenti? 






giovedì 5 dicembre 2019

December Pink Cyclamens



The thought of what should have been
Strikes true to my heart like no other,
My heart quickens and slows
My breathing becoming more shallowed.

Panic now ensues
And the rage wants to come out,
I think back on what should have been
And realize, there is still tomorrow.

Paolo Driussi

sabato 19 ottobre 2019

Sarah Vaughan sings me to sleep each night.




I can’t let you go 
Even though I never had you to start with 
I’ll trick myself into thinking you could possibly love me 

You’ve got dark hairs in your car but they’re not mine 
Her dye job looks better than my genetics ever did 
You replaced me with someone better 
I am the before photo and he is the after
He plays me better than I ever could.
I broke my own heart
And now Sarah Vaughan sings me to sleep each night.

Paolo Driussi

mercoledì 16 ottobre 2019

Another Hotel






Dreaming of when the morning comes,

Will I be awake to see the sun?

Or will the hazy, dreamy world of slumber

Have captured my thoughts by then?

Why can't you just love me?

Others will never know.


Paolo Driussi.

sabato 23 marzo 2019

Il Cinema Odeon di Udine 




Il Cinema-Odeon fu progettato dell’ingegnere Ettore Gilberti, e la realizzazione fu portata a termine da Ferdinando Vicentini. L’inaugurazione del 1936, avvenne nel segno di un film cult dell’epoca, 'Desire' di Ernst Lubitsch, affidato a due icone del cinema del tempo, Marlene Dietrich e Gary Cooper.

Dopo decenni di onorato servizio, anche l'Odeon ha chiuso i battenti, stritolato, come altri cinema, dalla concorrenza di multisala (dove il vicino rumina odiosamente pop corn alla maniera americana), home video e mutato costume di un'utenza dedita a una molteplicità di svaghi impensabile fino a qualche anno fa. Nato negli anni Venti, per molte generazioni è stato il cinema dei "terzi", il loggione dove studenti, militari e meno abbienti potevano vedere un film a poco prezzo anche se con limitata comodità. Le sedie erano di legno, appiccicate l'una all'altra, tanto da farti sentire puntate nella schiena le ginocchia di chi ti stava dietro o addirittura, a sala meno affollata, i piedi allungati di un poco educato spettatore retrostante appoggiati sui braccioli del posto libero accanto al tuo. Aleggiava una vaga atmosfera paesana, ai terzi, soprattutto il sabato sera, quando il divertimento principale dei giovani, negli Anni '60 e '70, era costituito appunto dal cinema in allegra compagnia e da una successiva birretta (o tajut) in qualche bar, la cui chiusura non si protraeva mai oltre l'una. La folle corsa verso le discoteche non era ancora diventata di moda, anche perché solo i più fortunati potevano disporre della Seicento di papà con cui scarrozzare gli amici verso le ridotte mete del sabato sera. E i terzi, allora, si riempivano anche di gruppi a cui il film in programma interessava relativamente e che lassù si appollaiavano appunto con la mentalità festaiola del loggione. Così, ad esempio, nel film "Le calde notti di Poppea", durante la scena di un inseguimento in un campo di grano di una procace fanciulla di una leggera tunica vestita (e dalle bellezze ballonzolanti al vento) da parte di un manipolo di soldati romani, qualcuno commentava a voce alta con ruvido accento dell'Alto Friuli: "Ce polmòns!" e tutta la sala era un fragore di risate. Oppure, trascinato da una claque di casinisti, il pubblico si lasciava andare ad un clamoroso applauso quando il protagonista di un film di Dario Argento, "L'uccello dalle piume di cristallo", con un tuffo alla Zoff schiaffeggiava via dalle labbra della sua bella un bicchiere colmo di una bevanda che lui aveva intuito essere venefica. Un settore ruspante che i ragazzi, per lo più senza le "mule" segregate in casa la sera dagli austeri genitori, frequentavano solo in compagnia di amici. Perché se all'Odeon ti capitava di andarci la domenica pomeriggio con la ragazza, dovevi per forza poterti permettere perlomeno la platea (dalle sedie anch'esse di legno, ma chi ci faceva caso?), con quelle imbottite dei "primi" frequentate solo in caso di eventi speciali. Già, perché lì ti sentivi un abbiente, concedendoti anche una sosta sui divani del foyer per poi dare uno sguardo alla vita di Udine dall'ampia vetrata del mezzanino. Un cinema che avevi dentro, l'Odeon, anche quando le lunghe code della domenica ti costringevano ad attendere il tuo turno d'ingresso nel piazzale antistante, magari sferzato dal vento o sotto la pioggia. E di code ce n'erano davvero quando attendevi di entrare (sperando di trovare poi posto a sedere) per vedere James Bond, King Kong o Fantozzi o i western-spaghetti di Sergio Leone, Angelica (con la meravigliosa Michèle Mercier nuda di spalle!) o Helga, dove per la prima volta nella storia del cinema assistevi a un parto senza censura. Passare davanti all'Odeon, negli ultimi anni, e vedervi nell'atrio deserto gli addetti passeggiare avanti e indietro con aria vagamente sconsolata metteva un po' di tristezza. Così come incute malinconia il sapere che entro breve il vecchio, caro cinema cambierà aspetto, diventando probabilmente sede dell'ennesima banca, di anonimi uffici commerciali o, quel che è peggio, un garage. Ma è tutto sommato la fine, anche più triste, che hanno fatto purtroppo molte altre sale cittadine, passate a miglior vita o adibite ad altri usi. L'elenco degli estinti, al proposito, è lungo, dall'Eden caro al compianto Renzo Valente, e sulle cui ceneri è sorto l'Upim, ai piccoli cinema parrocchiali o di periferia. Come il "Roma" di via Pracchiuso, il "Friuli" di via Deciani o il "Bertoni", emissione dell'omonimo collegio, cari soprattutto ai ragazzi delle Parrocchie delle Grazie e del Redentore. Lì, tra cow boys e antichi romani, con un omino dal banchetto appeso al collo a passare tra le file offrendo "bagigi, caramelle, màndole", la mulerìa trascorreva un paio d'ore nei pomeriggi domenicali, con buona pace dei genitori, tranquilli nel sapere la prole in mani sicure. E poi il "San Giorgio", alle spalle di via Grazzano, l'"Asquini", il "Cecchini" di via Piave, il "Cristallo", il "Diana" e il "Ferroviario", con gli ultimi due a sopravvivere, a prescindere da tutto, grazie alla particolarità della filmografia rispettivamente offerta. Di livello superiore erano altri "cari estinti" come l'"Astra", nella galleria di Palazzo Kechler ora abbandonata anche dai magazzini Coin, il "Moderno" di via Aquileia, a un passo dall'attuale "Ariston", e il cinema-teatro "Puccini", abbattuto in toto e rilevato nel solo nome, qualche metro più in là, dalla sala inaugurata nel '66 con "Il papavero è anche un fiore" e che subì i primi veri affollamenti con "Mary Poppins" e la commedia fantascientifica "Barbarella", la cui principale attrattiva era costituita dalle evoluzioni di una Jane Fonda senza veli. Fra gli ultimi a cedere, il "Capitol" di piazzale Osoppo, sotto la cui galleria si fecero code chilometriche per "Il dottor Zivago", "La febbre del sabato sera", "Ritorno al futuro" e l'allora scabroso (negli anni Settanta) ma a distanza di tempo ingenuo "Gola profonda", interpretato dalla recentemente scomparsa Linda Lovelace. Nel vuoto lasciato dal "Capitol" dovrebbe prendere posto un magnifico parcheggio coperto, ma anche qui esiste una speranza riguardo ai soliti, noiosi uffici commerciali. Un condominio, quello dell'ormai ex "Capitol", che comunque prese a sua volta il posto, nei primi anni Sessanta, di un datato edificio alle cui spalle aveva sede il cinema all'aperto "Alle Alpi", molto frequentato dagli udinesi nelle calde serate estive. Anche allora, riportano le cronache, ci furono sentite rimostranze della cittadinanza riguardo alla decisione di seppellire la tradizione in nome della novità. Come dire che, a prescindere dallo scorrere del tempo e dal mutare delle mode, la voglia di nuovo, a Udine, non ha mai fatto parte dell'io più o meno nascosto della gente.

mercoledì 13 marzo 2019

As the wind is blowing




May your presence blow with the wind,
for your place is in waiting.
A brave soldier in our hearts you will stay, 
fond memories fortuned, 
golden gates open wide set pass by life’s freedom.

Like a night of stars expressing light beautifully
shine as I envisage your smile,
for it’s a miracle to see.

May your presence blow with the wind,
for your place is in waiting.

Paolo Driussi